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mercoledì 10 aprile 2013

I bambini non sono pezzi di carta ...



Negli anni '70 c'è stato un gran movimento che ha fatto sì che molti insegnanti abbiano iniziato a inserire i bambini disabili fino ad allora relegati nelle scuole speciali. Una grande rivoluzione che oggi rischia di avere delle battute d’arresto. Se è vero che hanno contribuito a questo risultato tenti studiosi e psicologi, oggi non c’è un eccesso di “specialismi”?  La diagnosi, per esempio, è sicuramente uno strumento importante, ma  alla conoscenza del bambino non dovrebbero anche contribuire saperi certamente non “scientifici”, ma ugualmente importanti, frutto dell'esperienza diretta di chi vive la situazione, della stessa persona che viene diagnosticata e dei suoi famigliari, o coetanei, o amici o insegnanti? Non dovrebbe esserci più attenzione e ascolto dei vari punti di vista senza atteggiamenti gerarchici? Ridurre alla diagnosi la diversità del bambino non condiziona anche chi è in relazione con lui?

Sembrerà che la mia risposta sia stravagante e paradossale. Mi piacerebbe immaginare la scomparsa delle diagnosi. E’ certamente paradossale che la diagnosi, che, anche per la sua etimologia, dovrebbe essere uno strumento per la conoscenza, diventi invece sovente un ostacolo alla conoscenza, che sembra un fatto per gli specialisti. Può così succedere che un insegnante che da un  paio di mesi incontra tutti i giorni, e per diverse ore ogni giorno, un bambino o una bambina, ritenga di non sapere niente perché non è ancora arrivata la diagnosi. 
Spero sia chiaro che la mia risposta è soprattutto dettata dall’uso improprio della diagnosi, diventata, nel nostro paese, un credito esigibile in “sostegni”: se c’è una diagnosi, può esserci un “sostegno”. Ritengo che la domanda contenga ciò che registro sovente nelle scuole: la diversità di chi cresce è condizionata dalla diagnosi, che “chiude” alla conoscenza diretta da parte di chi vive in relazioni quotidiane con quel/la bambino/a. Ciascuno subordina ciò che vive alla “verità” della diagnosi, anche lamentando la sua assenza, i ritardi che possono esserci. Ancora: l’uso improprio della diagnosi è collegata alla “consegna” di chi cresce con la sua diversità (che non ritengo né esclusiva né escludente) al “suo” sostegno, in un rapporto a due che appare la risposta universale. Credo, in buona compagnia, che sia necessario circoscrivere l’utilizzo e l’utilità del rapporto a due e sviluppare una didattica inclusiva che coinvolga tutto il gruppo-classe.

C’è stata in questi ultimi anni un’attenzione superficiale ma straordinariamente ampia ai “Disturbi Specifici di Apprendimento”, alle “Sindromi di Iperattività”, a cosa è dovuto questo aumento di diagnosi? Non pensa che ci sia un eccesso di “specialismi”? Non c’è un eccessivo ricorrere a farmaci? 
I farmaci sono utili se non diventano la risposta unica e permanente. Se non dormo e un farmaco mi permette di riposare e riprendere forze, ben venga il farmaco. Ma se diventa il modo permanente e unico per me di dormire e riposare, non è una buona cosa. Dico queste cose semplici, dettate anche e soprattutto dalla mia presunzione di buon senso e dall’esperienza, che non è un merito ma è dovuta all’età. L’impiego di farmaci esige un intenso rapporto con chi ne assicura lo stesso impiego. Non è così, sovente, perché sembra che la prescrizione sostituisca ogni rapporto complementare. Accade purtroppo per situazioni psichiatriche. Mancando le risorse umane, vengono impropriamente sostituite con la prescrizione. Un danno non da poco. Possibile proprio per lo specialismo che induce a credere che vi sia chi – lo specialista – conosce tutto, può tutto, ed è irraggiungibile da chi non è specialista. Si può dire che è “fuori controllo”…
Quanto ai “Disturbi Specifici di Apprendimento”, alle “Sindromi di Iperattività”, devo dire che sotto queste indicazioni vi sono situazioni molto varie, che ci fanno capire che anche le cause possono essere varie. Cercando di esprimermi con semplicità, il più delle volte è utile cercare di mettere un po’ d’ordine in vite scombinate, in cui manca un ritmo regolare di sonno e veglia. Sovente, chi sta crescendo con questo tipo di problemi, non dorme bene, e neanche mangia bene. Forse le famiglie possono essere attente a queste cose. Ad esempio: passare dal giorno attivo alla notte di riposo non bruscamente ma attenuando suoni e luci; mangiare insieme, con calma. Non sono cosa da specialismi e da specialisti. Sono praticabili da tutti, se ciascuno assume una parte di responsabilità, collaborando con chi è specialista, e non delegando. 

Non sono in questo modo anche deresponsabilizzati i genitori e gli insegnanti che tendono a delegare, invece che ad affrontare i problemi in prima persona, magari (se necessario) con l’aiuto degli specialisti?
Proprio così. Abbiamo costruito una “integrazione” che finisce per utilizzare in modo ambiguo e contraddittorio la delega. Smontare questo modo senza smontare l’integrazione, anzi… Questa è la sfida che dobbiamo coraggiosamente accogliere.

Articolo tratto da: la scuola ci riguarda tutti.