
domenica 21 aprile 2013
mercoledì 10 aprile 2013
I bambini non sono pezzi di carta ...

Negli anni '70 c'è stato un gran movimento che ha fatto
sì che molti insegnanti abbiano iniziato a inserire i bambini disabili fino ad
allora relegati nelle scuole speciali. Una grande rivoluzione che oggi rischia
di avere delle battute d’arresto. Se è vero che hanno contribuito a questo
risultato tenti studiosi e psicologi, oggi non c’è un eccesso di “specialismi”?
La diagnosi, per esempio, è sicuramente uno strumento importante, ma
alla conoscenza del bambino non dovrebbero anche contribuire saperi
certamente non “scientifici”, ma ugualmente importanti, frutto dell'esperienza
diretta di chi vive la situazione, della stessa persona che viene diagnosticata
e dei suoi famigliari, o coetanei, o amici o insegnanti? Non dovrebbe esserci
più attenzione e ascolto dei vari punti di vista senza atteggiamenti
gerarchici? Ridurre alla diagnosi la diversità del bambino non condiziona anche
chi è in relazione con lui?
Sembrerà che la mia risposta sia stravagante e paradossale. Mi piacerebbe immaginare la scomparsa delle diagnosi. E’ certamente paradossale che la diagnosi, che, anche per la sua etimologia, dovrebbe essere uno strumento per la conoscenza, diventi invece sovente un ostacolo alla conoscenza, che sembra un fatto per gli specialisti. Può così succedere che un insegnante che da un paio di mesi incontra tutti i giorni, e per diverse ore ogni giorno, un bambino o una bambina, ritenga di non sapere niente perché non è ancora arrivata la diagnosi.
Spero sia chiaro che la mia risposta è soprattutto dettata
dall’uso improprio della diagnosi, diventata, nel nostro paese, un credito
esigibile in “sostegni”: se c’è una diagnosi, può esserci un “sostegno”.
Ritengo che la domanda contenga ciò che registro sovente nelle scuole: la
diversità di chi cresce è condizionata dalla diagnosi, che “chiude” alla
conoscenza diretta da parte di chi vive in relazioni quotidiane con quel/la
bambino/a. Ciascuno subordina ciò che vive alla “verità” della diagnosi, anche
lamentando la sua assenza, i ritardi che possono esserci. Ancora: l’uso
improprio della diagnosi è collegata alla “consegna” di chi cresce con la sua
diversità (che non ritengo né esclusiva né escludente) al “suo” sostegno, in un
rapporto a due che appare la risposta universale. Credo, in buona
compagnia, che sia necessario circoscrivere l’utilizzo e l’utilità del rapporto
a due e sviluppare una didattica inclusiva che coinvolga tutto il
gruppo-classe.
C’è stata in questi ultimi anni un’attenzione
superficiale ma straordinariamente ampia ai “Disturbi Specifici di
Apprendimento”, alle “Sindromi di Iperattività”, a cosa è dovuto questo aumento
di diagnosi? Non pensa che ci sia un eccesso di “specialismi”? Non c’è un
eccessivo ricorrere a farmaci?
I farmaci sono utili se non diventano la risposta unica e
permanente. Se non dormo e un farmaco mi permette di riposare e riprendere
forze, ben venga il farmaco. Ma se diventa il modo permanente e unico per me di
dormire e riposare, non è una buona cosa. Dico queste cose semplici, dettate
anche e soprattutto dalla mia presunzione di buon senso e dall’esperienza, che
non è un merito ma è dovuta all’età. L’impiego di farmaci esige un intenso
rapporto con chi ne assicura lo stesso impiego. Non è così, sovente, perché
sembra che la prescrizione sostituisca ogni rapporto complementare. Accade
purtroppo per situazioni psichiatriche. Mancando le risorse umane,
vengono impropriamente sostituite con la prescrizione. Un danno non da poco.
Possibile proprio per lo specialismo che induce a credere che vi sia chi – lo
specialista – conosce tutto, può tutto, ed è irraggiungibile da chi non è
specialista. Si può dire che è “fuori controllo”…
Quanto ai “Disturbi Specifici di Apprendimento”, alle
“Sindromi di Iperattività”, devo dire che sotto queste indicazioni vi sono
situazioni molto varie, che ci fanno capire che anche le cause possono essere
varie. Cercando di esprimermi con semplicità, il più delle volte è utile
cercare di mettere un po’ d’ordine in vite scombinate, in cui manca un ritmo
regolare di sonno e veglia. Sovente, chi sta crescendo con questo tipo di
problemi, non dorme bene, e neanche mangia bene. Forse le famiglie possono
essere attente a queste cose. Ad esempio: passare dal giorno attivo alla notte
di riposo non bruscamente ma attenuando suoni e luci; mangiare insieme, con
calma. Non sono cosa da specialismi e da specialisti. Sono praticabili da
tutti, se ciascuno assume una parte di responsabilità, collaborando con chi è
specialista, e non delegando.
Non sono in questo modo anche deresponsabilizzati i
genitori e gli insegnanti che tendono a delegare, invece che ad affrontare i
problemi in prima persona, magari (se necessario) con l’aiuto degli
specialisti?
Proprio così. Abbiamo costruito una “integrazione” che
finisce per utilizzare in modo ambiguo e contraddittorio la delega. Smontare
questo modo senza smontare l’integrazione, anzi… Questa è la sfida che dobbiamo
coraggiosamente accogliere.
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